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Gli archivi del Piccolo Teatro


Il campiello - 1992-93

autore: Carlo Goldoni
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Luciano Damiani
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Lettera alla compagnia del Campiello

Lettera agli attori con indicazioni sui personaggi e sul significato del testo Goldoniano

Cara Giulia e Carlo e Giancarlo e Valentina e Rosalina e Edda e Laura
Siamo momentaneamente assenti.
Al mio grande dolore si aggiunge anche questo: di non esservi vicini, come sempre, nel lavoro. Ma, per ora, il “Teatro” mi è impossibile. Mi fa troppo male. Dunque sarete soli con Carlo però che guiderà questa impresa ed ha tutte le ragioni per farlo. Lui sa tutto del Campiello e quello che non sa o non ricorda, glielo dirà il suo cuore e la tenerezza della memoria. Abbiamo amato molto il primo Campiello. È nato come da sé, in attimi di creazione naturali. Sono sicuro che il secondo non sarà meno del primo. Vi ho scelti con amore e fiducia i vecchi ed i nuovi. Vecchi, si fa per dire, del Piccolo Teatro che è stato una grande cosa nel deserto dal teatro italiano, compagni di tante avventure, di tanta storia. I nuovi che per la prima volta si muovono in questo spazio così misero, così piccolo e che pure ha visto una folla di creature umane a inventare il modo di raccontare storie umane agli uomini. È questo, sapete? il Teatro. Siete una “compagnia” una compagnia all’italiana come una volta quando era un onore essere comici italici riuniti ed in viaggio per l’Italia e il Mondo. Oggi siete l’eccezione. Ma siete. Non dovete fare altro che essere voi stessi, con umiltà e orgoglio. Non dovete fare altro che darvi con abbandono e gioia. Gioia di essere attori – Jouvet diceva che è il più alto compito del mondo. Io non so. Mi pare troppo. Ma forse è così – gioia di dare la vita ad una “cosa” di teatro scritta da un genio che mai fece la parte del genio e che, in fondo, mai nessuno riconobbe come tale, sul serio.
Il Campiello è un capolavoro. Doveva essere di nuovo vivo proprio in occasione del bicentenario della morte di G. a Parigi, in un gelido 6 febbraio del 1793.
Pensate qualche volta anche a questo: in quella sera di ricordo, in questa grigia città non più umana, si apriranno-metaforicamente o no – i tre sipari, in tre teatri, l’uno sull’Arlecchino servitore di due padroni, l’altro sulle Baruffe Chiozzotte, l’altro sul vostro Campiello. Manca il quarto con un’edizione della Trilogia della villeggiatura di cui Valentina sa qualcosa. In quella notte, avremmo messo così davanti agli occhi ed agli animi della gente una “storia” riassunta di Goldoni. Una delle cose somme del teatro in lingua, l’avventura della società borghese che parte, va ritorna o non ritorna. Una grande epopea in minore (apparentemente) del popolo che lavora, e poco o niente ha, se non la difficile solidarietà e l’amore ed in mezzo un G. quasi infantile che vuole esserci ma non può anche se a quel mondo appartiene. Un perfetto poema dello stesso popolo che senza il grande mare e senza il vento e le stagioni, in un cerchio di case, che anch’esso poco o niente ha, nella eco di un carnevale che non gli appartiene e che vive anch’esso le sue storie di difficile solidarietà e amore. E anche qui un altro G. che non è G. ma è di un altro mondo, di un altro paese persino e che sta lì, perché gli piace, perché preferisce quell’angolo di vita ad ogni palazzo fuori. Anche qui il G. - Conte - Cavaliere napoletano, è respinto ma almeno ritorna ‘laggiù” con una creatura che ama e lo ama. Lei pure un po’ “foresta” sempre. Addio Venezia cara con quello che segue.
Guardate dentro di voi a queste storie così diverse e così uguali ed amate la grandezza di G. Recitarlo è per ognuno di voi e per gli altri il miglior modo per celebrarlo: col rito del Teatro.
Laggiù, al Teatro Studio, il Carnevale c’è, non come una eco.
Cercate, se potete, di riunirvi la sera del 6 febbraio, voi comici italiani che hanno il diritto di chiamarsi tali a differenza di tanti e restare insieme parlandovi e volendovi bene.
Per il resto: so di lasciarvi in mani oneste e capaci. Soprattutto buone. So che voi siete buoni, che avete il cuore limpido nella bassezza che vi circonda e mi circonda. Il talento comincia da qui.
Dunque il Campiello secondo, sarà nella neve e nella dolcezza.
Vedrete che, in fondo, la mia presenza non sarà stata, alla fine, così determinante. Forse mancherà qualcosa qui o là. Forse avrei potuto andare avanti (ecco il punto: andare avanti, da allora!) Certo vi avrei dato bene e calore. Ma, ripeto, alla fine il Campiello sarà perché un poeta del teatro l’ha voluto così e così l’ha scritto. La neve: è stato il dramma dei russi, a Mosca. Non sono mai riusciti ad accettare fino in fondo questa Venezia nella neve e questi attori-personaggi che “giocano” nella neve e con la neve. Hanno amato il Campiello, tanto ma... E lo sapete che allora, ho scoperto un fatto incredibile: laggiù non “giocano” mai con la neve. Che “le palle di neve” sono una festa per noi, mediterranei. Là non è festa.
Pure qualcosa ho imparato. Certo Venezia ha conosciuto inverni straordinari, la Laguna si è gelata più volte, la neve nel tempo, c’era. Ho sempre pensato che questa “atemporalità” che viene adoperata per le opere di G. è giusta da un certo punto di vista (è astratta) ma non giusta dall’altro (toglie vita). Ecco perché ho pensato che a febbraio di quell’anno, di quel giorno “poteva” essere caduta neve e che tutto si svolgeva d’inverno. Come le Baruffe si svolgevano ai primi di autunno, tra uno scirocco e l’altro.
Ma forse, ecco, occorre risparmiarsi “sulla neve”. Forse, ricordo, ce n’era troppa anche perché l’avevamo scoperta allora come strumento nuovo di teatro e ci piaceva. Forse sul palco ce ne deve essere meno. O già era così? Infatti la pozza d’acqua non è gelata, proprio no. Forse ci sedevamo troppo per terra, sulla neve? Forse faceva troppo poco freddo per i personaggi? Forse mancava, che so? qualche scaldino per “le vecchie” che, badate, tanto vecchie non sono. Qui è una grande difficoltà, direi la principale per le attrici. In fondo sono povere donne sfiorite, con pochi denti, sorde e altro. Ma... ma... devono, ciononostante, essere ancora “vive”. I fidanzati di una, non sono forse così inventati ed impossibili quanto si può credere. Qualcosa sul freddo, sulla neve, più o meno, sulle posizioni a terra dovrebbe essere rivisto. Poca roba: uno scialletto in più, un avere freddo alle mani, un mezzo guanto, una sciarpa in più, uno scaldino in più, un naso gelato in più... una nuvola di fiato che esce da una bocca (l’eterna illusione del teatro che non può farlo, per noi figli del cinema) ma si può fare “finta” sapete, anche di quello!
Poi il Cavaliere: Giancarlo certo ha la tendenza all’estroso (è intelligente lui, pieno di fantasia drammaturgica), allo scattante ma il Cavaliere è morbido, infantile, mediterraneo nelle sua dolcezza del lasciarsi andare all’oggi e poi chissà? Non è in miseria per vizio o per deboscia. Ho giocato, ha perso tutto ma così... come De Sica ecco!... Il nostro caro vecchio gran giocatore scomparso... e si incanta a tutto. Si diverte dolcemente, corteggia dolcemente perché si lascia derubare dal popolo che lo guarda come “il rinoceronte” del Longhi, un animale “strano” che parla “strano” e che può servire per una mangiata (la sola dell’anno)! Crudele, un poco, il popolo con lui. Ma giustamente crudele e innocente nella sua crudeltà. Il Cavaliere sembra che lo capisca. È intelligente.
Gasparina: Giulia ha tutto, ma proprio tutto per fare una Gasparina stupenda, una cosa sola non ha: l’eta. Ma questo vale altrove. A teatro, sapete cosa ho sentito dire un giorno a Jouvet, ad un attore che usciva di scena alla prova e, un po’ anziano, recitava la parte di un attore giovane? L’attore – Com’è andata, Patron? Jouvet – Bene... bene... Mancava un po’ di giovinezza, ma anche questa, la si impara.
Non avere alcun complesso cinematografico, Giulia! Tu sei più giovane quando vuoi essere giovane, e devi, di noi tutti e di tutte le giovani vere. Con in più la sapienza. Attenta solo al sottotono. La tua finezza è il tuo agguto. Gasparina è viva, delicata sì ma energica, piena di vogli,a piena di curiosità. Non è Cechov, mai.
E potrei andare avanti così ma allora?
E Luigi? Il vecchiardo malefico della Piovra uno due e tre? Quel maledetto, trapassa il tempo indenne.
Ah! dimenticato: il napoletano. Ci sono due stranieri qui, uno Gianni e l’altro Giancarlo. Sono proprio stranieri per cadenza e modo. Il vecchio napoletano tutto fuoco ed esuberanza. L’altro tutto contemplazione e placido senso che la vita tanto passa e tanto niente conta.
Il vecchio è uno studioso con tanti libri. Non lo lasciano studiare. Poi si scopre che è uno che ha vinto una grossa somma al lotto ed ha lasciato Napoli per Venezia. Certo per andare lontano in un altro posto e sperare nel secondo colpaccio. Per aumentare le probabilità. Studia ma studia “la Smorfia” la “Cabala” il libro dei sogni, il sistema! Quale genialità di G. lo si scopre solo alla fine. Ma l’attore lo sa dal principio. Forse io non sono riuscito a mettere in luce questo fatto. Non tanto giovane, parla un napoletano morbido, cadenzato, lento, ma non fiacco. Gli altri non lo capiscono bene. Lui non capisce bene gli altri. Ma vuole imparare. Come se fosse il russo. Altro colpo di genio di G. L’Italia quella vera.
Che tutto sia vivo, dolce, aspro, lieto e triste. E che ci sia gioia di vivere, contro tutto e tutti. La lezione di questi tre spettacoli è che la vita è una cosa unica, sorprendente e magnifica. Nonostante la bassezza e nonostante l’ombra terrificante di una Giustizia che è solo licenza, spettacolo molto ma molto più indegno dei nostri, di noi, poveri comici onesti.
Viviamo tempi molto oscuri in cui non come diceva B.B. cantare gli alberi pare quasi un delitto. Tempi in cui soltanto vivere, essere, amare, non avvoltolarsi nel fango, è un delitto.
Nel magico cerchio del Teatro, inventiamoci una vita che intorno non c’è. Come una parabola. Come un simbolo di un mondo migliore. Io non ci sarò con voi. Ma ugualmente ci sono. Qualcosa del meglio di me è alle vostre spalle, forse nei vostri cuori, certo nella memoria. E da lontano - vicino vi guardo con tutto il mio bene e la mia fiducia. Non sentitevi in colpa “facendo il Campiello” senza di me. Voi non fate G. con me, nemmeno il Campiello.
Fate il Teatro che è più grande di tutti noi e persino di quelli che l’hanno scritto.
Vi abbraccio tutti con il mio vecchio affetto lacerato.
il vostro Giorgio
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